Correva l’anno ’97, avevo 15 anni, non sapevo ci fosse un mondo fuori dal cortile della mia scuola; avevo un ragazzo con il motorino ed i capelli ingelatinati come Brandon Walsh di Beverly Hills e lo zaino Eastpack perché l’Invicta era già passata di moda.
Erano gli anni in cui si cantava a squarciagola col proprio gruppo scout le canzoni di Guccini e De Gregori e tra queste c’era “ecco la ragazza slava venuta allo sprofondo” (Agnello di Dio, de Gregori, 1996) e noi non lo sapevamo cosa fosse “sprofondo”.
E poi il mio ragazzo ed i miei amici per Sprofondo son partiti davvero.
Sprofondo è un’associazione con sede a Sarajevo che si occupa delle vittime della guerra in Bosnia e loro ci sono andati a far volontariato.
Li ho visti tornare ad uno ad uno cambiati, con una luce diversa negli occhi. Chiedevo spiegazioni, ma continuavano a ripetermi: “La gente ti ferma per strada e ti racconta la sua storia… ma non puoi capire. Sarajevo la devi sentire”.
Decisi che dovevo andare a “sentire” cosa quella città avesse da dirmi.
Correva l’anno 2001, avevo 19 anni ed una famiglia che mi disse espressamente che, mai e poi mai, mi avrebbe permesso di andare in Bosnia perché troppo pericoloso.
Capii che la maggiore età senza possibilità economiche costituisce una falsa libertà. Mi trovai lavoro come babysitter di un bambino down e con i soldi guadagnati nei pomeriggi rubati allo studio, partii per Sarajevo. Due macchinate di ragazzi allegri che cantavano Elio e le Storie Tese e tanti km da percorrere.
Arrivammo a Sarajevo a sera inoltrata ed io mi aspettavo, che bambina!, persone che mi fermavano per strada e mi raccontavano la loro storia… questo mi avevano detto, del resto.
Invece siamo andati in una specie di squallido albergo. Dopo la cena una persona ci seguiva e, se non fosse stato per il mio ragazzo che mi teneva stretta per un gomito e mi diceva di sbrigarmi, non me ne sarei neanche accorta. Durante la notte, qualcuno ha iniziato a tirare calci alla porta urlando e cercando di entrare.
Sono stata l’unica a svegliarsi e per la prima volta ho compreso la lucidità che accompagna il terrore quando la persona che ami è in pericolo. Con il cuore che mi schizzava dal petto, sono rimasta immobile nella speranza che il mio ragazzo ed i miei amici non si svegliassero e non reagissero.
L’uomo se ne andò, non ho più ripreso sonno, ma all’alba ero consapevole che dovevo rivedere la mia idea di sogno-Sarajevo.
La mattina seguente è venuto a prenderci Boban, il padre della famiglia bosniaca che avevamo adottato. Ho iniziato a vedere per strada dei cartelli con nomi di stati americani come New Jersey. Boban ci spiega che gli americani, non sapendo come chiamare i quartieri della città, li hanno ribattezzati con nomi conosciuti. Pensate per un attimo a cosa significherebbe se qualcuno venisse a casa nostra e Trastevere diventasse California e San Frediano Texas…
Siamo andati al famoso stadio dove aveva parlato il papa e dove gli U2 avevano fatto il concerto.
Sono entrata in un campo per farne una foto e Boban ha iniziato ad urlarmi di tornare indietro con attenzione estrema perché la zona non era stata ancora sminata ed avrei potuto saltare in aria in qualsiasi momento.
Siamo andati nella Bascarsija, nel centro della città, dove mi hanno sputato addosso.
Le persone non ti fermano più per la strada per raccontarti la loro storia. Non eravamo più gli stranieri venuti a dare aiuti perché gli aiuti non arrivano più da anni e, tra l’altro, sono arrivati solo alla famosa Sarajevo.
Chiedetelo agli abitanti di Mostar quanti aiuti sono arrivati a loro.
Siamo andati ad Oslobodenje, la sede del giornale ed uno dei primi bersagli degli bombardamenti.
Un cumulo di macerie.
La distruzione dell’identità di un popolo.
La distruzione dell’informazione.
Non volevano si sapesse… e cosa non volevano si sapesse?
Non volevano che si sapesse che musulmani e cattolici si stavano aiutando nelle case senza elettricità, minimamente conivolti in una guerra che veniva spacciata per religiosa.
Non volevano che venisse raccontato del dottore che ha operato la moglie morta incinta per far nascere il proprio bambino.
Non volevano che si sapesse di come la gente stesse comprando la frutta, quando hanno fatto la prima strage al mercato.
Non volevano che si sapesse dei due ragazzi innamorati, uccisi, mano nella mano, dai cecchini e resi poi famosi anche dalla canzone “Primavera a Sarajevo” di Enrico Ruggeri “Amore, aspettami che c’è una vita intera”… non questa.
Non volevano che si parlasse di Moreno Locatelli, pacifista ucciso durante la manifestazione pacifista (autorizzata!) perché aveva visto scaricare da dei funzionari dell’ONU delle armi da un’ambulanza.
Ma soprattutto non volevano che si parlasse di bambine come Lejla.
Aveva 14 anni e a scuola le avevano chiesto di scrivere il tema “Cos’è la guerra”.
E lei scriveva:
“La guerra è il caffè fatto con le lenticchie, l’orzo ed il riso.
La guerra è quando il pasticcio di lenticchie si chiama insalata di verdure.
La guerra è quando il pasticcio di riso si chiama insalata di formaggio.
La guerra è quando il pasticcio di briciole di pane si chiama insalata di pollo.
La guerra è quando il thè è solo acqua calda con zucchero. La guerra è thè senza zucchero.
La guerra è la stufa e noi tutti in una piccola stanza.
La guerra è quando torni a casa vivo.
La guerra è olio, acqua e spago (si chiama candela).
La guerra è Sarajevo. Sarajevo campo di concentramento, teatro, palcoscenico aperto, io viva, io morta, il massacro, il sangue, i bambini, le granate, la pazzia, il dolore, il freddo, il coraggio, il dispetto, le lacrime, il dolore dell’anima. […] Vorrei domandarti una cosa: tu sai che questa è la settimana dei bambini uccisi?
Tu sai che in questi 3 anni a Sarajevo sono stati uccisi 1600 bambini ed il doppio di questo numero sono stati feriti e rimasti invalidi?
Vorrei domandarti una cosa: il mare è sempre blu e le montagne belle come prima?
É bello passegiare e guardare le vetrine piene di roba, mangiare un gelato e vedere le luci per la strada? É bello come prima?”
Lejla aveva la stessa età che avevo io, con il mio zaino Eastpack ed il ragazzo con la cresta, quando ho deciso di andare a Sarajevo.
Paola_scusateiovado dice
Mi manca il fiato a leggere di Sarajevo e mi si stringe il cuore a leggere di questa Sarajevo. QUanto è difficile parlarne?
Bellissimo post!
Simona dice
(siccome non l’ho scritto io, posso solo dirti che ho provato lo stesso quando l’ho letto… ). Quante cose non immaginiamo neppure. (Quantomeno io, per carità).
Federica dice
Molto difficile parlarne… ancor di più è stato viverla. Difficile, ma bello!
Lucia - Respirare con la Pancia dice
Già dal titolo avevo immaginato. L’ho letto così, di un fiato. Questi sono i viaggi che rimangono dentro, e di cui dovremmo ricordarci sempre, anche nella quotidianità. Grazie per averlo fatto. Bellissimo.
Federica dice
Grazie mille, felice di averlo fatto!!