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Varanasi: dove c’è la morte, percepisci la vita
di Alice
“L’India è il Paese delle cose incredibili che si guardano tre volte stropicciandosi gli occhi e credendo di avere avuto le traveggole”.
Albero Moravia
Ormai da quattro anni coordino viaggi di gruppo e quello che ho imparato è che non sai quanto ti piacerà un luogo fino a che non sarai sul posto, quindi negli ultimi anni ho accettato ogni viaggio mi sia stato proposto.
Ma nell’ultimo anno, schiava di un fedele compagno di viaggi, mi son ritrovata a fare viaggi estremamente naturalistici la cui caratteristica era la solitudine ed il silenzio.
E poi… dopo un anno e mezzo di scelte condizionate dovevo scegliere la mia meta da sola e, chissà perché, ho scelto l’India.
In particolare ho cercato Varanasi, la città più sacra per l’induismo perché si crede che sia l’unico luogo esistente al mondo che permetta di sfuggire al Samsara ovvero all’eterna reincarnazione.
Il caos dell’India…
Volevo caos, odori, gente, rumore, volevo essere emotivamente sconvolta da qualcosa che non mi venisse da dentro ed ho cercato l’India.
O forse è stata lei a chiamarmi.
Sono arrivata a Varanasi credendo nel mio Dio cattolico e praticando la meditazione buddhista: di certo non c’era spazio dentro di me per credere anche in una qualsiasi divinità induista.
Del resto mi ha sempre dato pensiero l’idea che qualcuno possa credere in divinità nate dall’accoppiamento tra uomini ed animali, ma ciò che salta all’occhio appena si arriva sulle rive del Gange è che qualsiasi cosa o chiunque sia stato, uomo o Dio, innocente o peccatore, a favorire la nascita di questa città, un segno l’ha lasciato.
Un segno che si sente sotto la pelle.
L’alba a Varanasi
Mi spiego meglio: aldilà dell’emozione personale che ognuno di noi può provare, quello che gli occhi possono vedere, all’alba, quando arrivi sulle rive del Gange è qualcosa che non è umanamente pensabile.
Hai l’impressione che due occhi non bastino a vedere tutto ciò che potrebbero.
In un silenzio spettrale senti il rumore del gong che ti accompagna mentre ti aggiri, rigorosamente in silenzio perché le parole ti mancano, sulle scalinate chiamate ghat che portano alla riva del Gange; davanti ai tuoi occhi ne scorrono di vari: quello dedicato alle abluzioni, quello dove puoi lavarti, quello dove vengono lavati asciugamani e lenzuola delle case private, ma anche degli alberghi ed infine il ghat delle cremazioni.
Le acqua del Gange
Cataste di legno affollano la riva che, poche ore dopo l’alba, inizierà a brillare dei fuochi delle pire su cui vengono bruciati i cadaveri e che continueranno a brillare anche durante il silenzio del crepuscolo.
Questo non è lo spettacolo che i nostri occhi occidentali sono abituati a vedere e anche una volta che l’immagine è passata dagli occhi al cervello la mente non riesce a concepire quello che ha visto e resta incredula.
Come è possibile che ancora oggi esistano dei posti dove la religione ti porta ad immergerti e lavarti nelle stesse acque dove vengono gettate le ceneri dei tuoi cari?
L’insegnamento di Varanasi
Vien da pensare che questo possa essere il luogo per eccellenza dimenticato da Dio.
Invece, e per me tutta la contraddizione dell’India sta proprio in questo, quello che ti commuove e ti entra dentro è una infinita pace, la sensazione di esser tornata a casa, è il riaffiorare di ciò che c’è di più primitivo e puro dentro di te.
Proprio là dove c’è la morte, tu percepisci la Vita.
L’India semplicemente la senti.
L’india è come la famiglia: può essere buona o crudele, puoi non capirla o non sopportarla, ma non puoi fare a meno di amarla perché è ciò che ti ha permesso di posare gli occhi sul mondo, su un mondo che non avresti mai immaginato in questo modo.
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