Cosa vi immaginate di Phnom Pehn, la capitale della Cambogia, quando ci pensate?
Motorini che sfrecciano in ogni dove e in ogni modo minacciando ogni pedone poco attento? Esatto.
Quei contrasti tipici delle grandi città dell’Asia che uniscono grandi ricchezze a estreme povertà? Esatto.
E poi ancora rumore, inquinamento, bancherelle e odori che avvolgono il vostro olfatto, estraneo a quei sentori? Ancora esatto.
Ma quello che non potete immaginare è la storia che racchiude questa città. O meglio, le testimonianze visive della storia cambogiana che Phnom Pehn conserva.
Il primo impatto con Phnom Pehn è stato, per me, un’attesa che trovava conferma.
Dopo intere giornate di viaggio tra la turistica Siem Rap (sito da cui si visita l’insieme di templi di Angkor Wat) e altre giornate passate nella parte orientale ricca di vegetazione e meno popolata, giungere nella capitale, è stato come arrivare nel vero cuore della Cambogia.
La Pagoda d’Argento, il bazar, i bar sul lungofiume e i giri in tuk tuk: la città è accogliente, viva, moderna e particolarmente attiva. Non ho percepito alcun pericolo, i cambogiani sono abituati al turismo e sempre disponibili ad accogliere nuovi visitatori con il sorriso, quello vero.
Ma tutto sparisce o meglio, viene messo in secondo piano dopo aver visitato quanto io ritengo obbligatorio visitare una volta che vi recate a Phnom Pehn: il Museo Tuol Sleng, meglio conosciuto come S-21 ovvero il liceo che nel 1975 fu occupato dagli Khmer rossi comandati da Pol Pot.
Per chi di voi è ben informato, per chi ne ha solo sentito parlare, per chi al momento si trova spaesato perché non sa di cosa sto parlando, faccio una breve sintesi: questo è il luogo che dal 1975 al 1979 è diventato il centro di detenzione e di tortura della Cambogia. Paese martoriato da una delle peggiori guerre civili che la storia abbia mai avuto modo di osservare, inerme, nei secoli dei secoli.
Mentre nel 1975 in Europa l’era odierna e tutti i suoi diritti erano già realtà consolidata da anni, in Cambogia si perpretrava una delle guerre più inspiegabili e oscure che l’essere umano possa aver pianificato: Khmer Rossi, ovvero il partito dei comunisti cambogiani guidati da Pol Pot, contro… ? Contro tutti i cambogiani che non erano Khmer Rossi.
Non è facile capire la storia cambogiana, figuriamoci darne spiegazione.
“Ancora oggi ci si interroga sul perché sia avvenuto un simile genocidio, come sia possibile che dei cambogiani abbiamo sterminato altri cambogiani con questa efferata durezza. Se Hitler voleva difendere la razza ariana, Pol Pot e gli Khmer rossi hanno ucciso centinaia di migliaia di connazionali, consanguinei. La realtà è che non c’è nessuna spiegazione possibile, questo è il genocidio più atroce che l’essere umano abbia mai compiuto”, queste le prime parole della guida una volta varcata la soglia (agghiacciante) del Museo Toul Sleng/S-21.
Un giorno, negli anni degli Khmer rossi (dal 17 aprile 1975 al 9 gennaio 1979), gli abitanti di Phnom Pehn si sono ritrovati alla porta di casa i militari rigorosamente armati.
“Dovete seguirci”. Li obbligarono a lasciare seduta stante la loro casa, a uscire “così come erano” e li condussero fuori dalla città. Tutti. Uno a uno.
I cortei dell’abbandono forzato della città di Phnom Pehn sono ritratti nelle foto in bianco e nero appese alla pareti del museo e mostrano i cambogiani in cammino nel mentre in cui sono obbligati a lasciare la loro città, la loro casa, la loro libertà e spesso, la vita stessa.
Il Partito di Pol Pot evacuò la città con la scusa del sovraffollamento e del rischio epidemie, nel concreto portò tutti gli abitanti nei campi costringendoli ai lavori forzati.
Obiettivo e ideale degli Khmer rossi era quello di costruire una comunità agraria fondata sul lavoro agricolo, le città, per loro, non rispettavano “l’ideale” di comunismo imposto da Pol Pot (leader più conosciuto). E nel giro di breve, la capitale di Phnom Pehn fu evacuata e “abbandonata”.
“Quello che non si sa, è che ancora oggi, molti leader degli Khmer rossi non sono mai stati puniti. Non hanno mai ricevuto alcuna condanna per i loro crimini”, prosegue la guida con il suo inglese perfetto, nel mentre io mi chiedo se sto davvero capendo quanto dice dal momento che mi sembra tutto incomprensibile.
Ritratti in bianco e nero dei detenuti, immagini di cambogiani agonizzanti dopo le torture subite, celle scarne e atroci con, devo dirlo, ancora macchie di sangue (stinto) sul pavimento o sui muri.
La sensazione di angoscia che accompagna una tale visita, non è narrabile. L’atrocità degli Khmer rossi e la loro fame di sangue ebbe conferma ulteriore quando iniziarono ad assassinare non solo i cittadini stranieri presenti in Cambogia (alle pareti le loro foto, tra cui quelle di un giovane giornalista australiano di cui la guida racconta), ma anche gli stessi aguzzini Khmer rossi. Ovvero: si assassinarono anche tra di loro per giochi di potere, che in tal contesto, non prevedevano altro che “fuori uno, avanti un altro”.
L’esercito vietnamita liberò Phnom Pehn nel 1979. Dopo 4 anni di torture e sterminii in cui il mondo, Occidentale in primis, sapeva, certo, ma nulla faceva. Solo 7 furono i sopravvissuti, e uno è presente all’S-21 ancora oggi, facendo quadri per turisti, vendendo il suo libro e raccontando la sua storia.
“Mi sono salvato perché sapevo fare le fotografie, e loro volevano fotografare tutto. Per questo io e pochi altri, avevamo questo privilegio”, in questo caso, chiamato vita.
A pochi chilometri dista il campo di sterminio Choeung Ek, campo in cui venivano trasferiti i detenuti che erano nell’S-21 per essere uccisi. Le audioguide di questo luogo (divenuto privato nel 2005 per quelle ragioni che definirei poco chiare), uniscono dettagliati racconti a canzoni e cori dell’epoca.
Se l’S-21 crea angoscia e struggimento, qui, percepirete il vero dolore.
E se pensate che qualcosa di quello che vedrete e sentirete sia anche solo comprensibile dalla ragione, beh, no. Non lo è.
Qui venivano assassinate, sterminate, uccise migliaia di persone. Con che criterio? Nessuno.
Migliaia di persone (uomini, donne, bambini) uccise nei modi più atroci.
Per risparmiare i proiettili venivano usati i bastoni. E non solo.
Dipinti mostrano come venivano uccisi i bambini, e ancora oggi la ritengo la cosa più atroce che io abbia mai sentito, e per questo sarò breve: contro gli alberi. Presi dai piedi, e sbattuti contro degli alberi.
Soffermarsi a pensare non aiuta. La commozione (o il pianto) l’unica valvola di sfogo possibile.
Un luogo che mostra gli orrori di una guerra senza spiegazione (alcuna) per far sì che non si dimentichi, nonostante non si trovino le ragioni.
Infine oltre 8mila teschi sono ordinati per sesso ed età, ed esposti dietro dei pannelli di vetro.
E quando a fine giro, o nel corso di questa visita, vi fermerete lì davanti, vi ritroverete (forse) anche voi a pensare che l’essere umano è quanto va realmente temuto.
Un giorno, anni fa, ebbi la fortuna (immensa) di intervistare Fernanda Pivano quando uscì il suo libro “Ho fatto una pace separata”, e parlando con lei del libro e (per forza) della guerra in senso lato…
Mi disse: “Bisogna sempre credere nella pace. Sempre. Anche perché se non crediamo nella pace? Cosa dovremmo fare? Credere nella guerra?”.
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