Prima della partenza
Terrorizzata. Il Pizzo Bernina è la mia prima cima. Dopo un intero corso di alpinismo, la parte finale, prevede la scalata del Pizzo Bernina. Non una cima qualsiasi, ma una vetta che si staglia a 4049 metri.
Io mi chiedo: ma con tutte le cime di 2000 o 3000, ma proprio da 4000 serve iniziare?
E per quanto io vada a ricercare nella (pessima) memoria qualche occasione che mi abbia già portato a un’altitudine non dico uguale, ma almeno similare… Non me ne viene in mente una.
E concludo dicendomi che tutto sommato sciando, almeno una volta a 4000m ci sarò pur andata no? (Poi però ricordo anche che io a sciare faccio schifo e mi rispondo “Ma dove vuoi essere andata?”).
Il Pizzo del Bernina è storia. Trattasi della cima più elevata delle Alpi Retiche Occidentali. (ma con tutte le cime che ci sono nelle Alpi Retiche…).
Dove: Svizzera, tra i comuni di Pontresina e Samedan (vicino alla frontiera italiana – partenza da Campo Moro).
Dislivello: 813m per il rifugio Marinelli + 1236m per la cima del Bernina
Durata: 10 ore solo a salire (cosavuoichesia)
Difficoltà: PD +
Come si arriva:
Partendo da Sondrio sono circa 45 minuti di macchina. Prima ci si dirige verso Lanzada, e poi Franscia fino a Campo Moro. Una volta arrivati alla diga di Campo Moro avete solo l’imbarazzo della scelta per il parcheggio. Iniziate a percorrere la diga fino ad arrivare al sentiero.
1° giorno
Trekking Campo Moro (2000 m) – Rifugio Marinelli Bombardieri (2813 m)
Dislivello: 813 m
Durata: 3 ore
Il trekking dal Campo Moro al Rifugio Marinelli, l’ho già raccontato quando parlavo di “2 amiche, 1 montagna e 800 m da affrontare: Rifugio Marinelli, Bernina #1
In questo caso però cambiava la compagnia e la stagione in corso.
Mese di giugno. Fine giugno per l’esattezza.
Inizio la salita con alcuni compagni del corso (bravi! Decisamente molto bravi in termini alpinistici intendo) e con noi sale anche un alpinista che non fa il corso, ma in compenso fa la corsa… Di montagna!
Ora se voi non avete mai avuto il piacere di osservare tale attività sportiva, fidatevi, non potete capire. Perché io vi sfido a poter capire atleti che non è che camminano velocemente nel salire e scendere pareti scoscese di montagna, ma lo fanno correndo!
Per darvi una proporzione? Quanto qui indico in 3 ore, loro possono farlo in 1,30.
Perché questa piccola disgressione?
Perché il passo al mio gruppetto lo dà esattamente questo alpinista che solitamente fa corsa di montagna.
E se i miei amici alpinisti bravi, riescono a stargli dietro con un semplice respiro appensantito, io nei primi venti minuti di salita mi gioco ogni possibilità respiratoria. (Ho creduto di collassare).
Un mio amico torna indietro e mi dice (PURE): “Ma oggi che cosa hai? Perché sei così lenta?”.
A ricordare che, nella vita, è tutto relativo?!
Dopo circa un’ora e trenta, quando finalmente riesco a tenere il passo (e quando FINALMENTE l’alpinista che fa corsa di montagna è già sparito all’orizzonte da tempo), incappiamo nella neve.
Sgargiantella io, in piena estate, secondo voi, con cosa ero partita? Pantaloncini corti! Ovvio. Bellissimo quindi per me ritrovarmi nella NEVE con i pantaloncini corti, e poi vaglielo a spiegare che la mia è ignoranza e non voglia di fare la sgargiantella.
Fatto sta che le ghette nello zaino mi hanno permesso di arrivare su senza altri intoppi (e senza i polpacci congelati).
Arrivati al Rifugio Marinelli ci sistemiamo nelle stanze con letti a castello, recuperiamo le coperte aggiuntive (3 per me! Tremo già di mio, almeno fatemi stare al caldo) e poi andiamo a cena. La tensione è tanta, inutile negarlo, ma per fortuna sono in ottima compagnia e con le amiche si passa da una risata all’altra.
Ottima cena (quando mai!) e alle ore 22 a letto.
La sveglia in questo caso è alle ore 2.
Prima cima. Prima sveglia alle ore 2. Dobbiamo fare più di 1000 metri di dislivello in un colpo solo. Anzi, scusate, dobbiamo farne 1236…
Io, non ho chiuso occhio. Lo credevo impossibile, ho sempre dormito in ogni situazione e condizione nella mia vita, ma quella notte ho passato 4 ore sempre vigile, tra ansia della cima e ansia che dovevo alzarmi alle ore 2.
Il lato positivo è che appena sono squillate le sveglie, ero già in piedi.
2° giorno
Rifugio Marinelli Bombardieri (2813 m) – Cima Pizzo Bernina (4049 m) [fallita]
Dislivello: 1236m
Durata: 7/8 ore
La ragione della sveglia così “notturna” è anche dovuto all’occasione in essere: ricorre in quel week end qualche anniversario della cima del Bernina, che ora non ricordo, il che comporta in termini pratici “parecchia gente”! (Parecchia gente a 4000 metri, non è il parecchia gente di piazza Duomo eh).
Colazione abbondante, “vestizione”, luce frontale in testa e divisione in cordate. Sento una stretta allo stomaco (ma la colazione l’ho fatta lo stesso).
A condurmi il mio maestro di alpinismo (del CAI di Sondrio).
Un alpinista noto in Valtellina, un alpinista con parecchia esperienza, un alpinista vero insomma.
Età: 70 anni e qualcosa, e lì ci si rende conto che quando i trentenni lamentano carenze fisiche dovute all’età, sono tutte cazzate! Ma ancor di più si capisce di quanto la mente riesca a condurre il corpo, e con risultati sconvolgenti. Fatto sta che sono felicissima sia lui a condurmi, so che lo farà nel modo migliore e inizio a rilassarmi un po’ e a camminare.
Il tragitto è davvero lungo. Ma io per fortuna non so di quanto e non lo chiedo.
Le prime due ore sono piuttosto semplici. Ancora al buio, io non ho grandi ricordi, ve lo confesso. Forse stavo ancora dormicchiando, so solo che seguivo la luce frontale e godevo degli scenari attorno che in alcuni punti erano stucchevoli. (NB: il fatto che me ne rendessi conto testimonia che non facessi troppa fatica fisica).
Verso le primi luci dell’alba arriviamo al canalone di Cresta Aguzza (45/50°). Immenso. Infinito. Altissimo e disteso. Così appare ai miei occhi.
Ci sono due vie per arrivare in cima: questo canalone e le roccette piuttosto difficili (dicono), non chiedo altro. Approvo il canalone. Lo fisso e mi chiedo quanto tempo ci vorrà a percorrerlo, noto solo una cosa: ma quanto sale?
Ci fermiamo, e il mio maestro: “Questo è il canalone in cui è venuta giù la valanga. La valanga che ha ucciso mio fratello”.
Qui dovreste avere una foto della mia faccia. Mi spiace. Non ce l’ho.
Sussurro: “Qui?”.
Lui sereno, risponde: “Sì, in quel punto” e prosegue raccontando quanto accaduto. Per concludere dicendo: “Non ci si può fare nulla. Sono cose che succedono”.
Sapete qual’è la cosa più sconvolgente? Che i veri alpinisti hanno questa serafica modalità di raccontare quelle che per tutti i comuni mortali sono disgrazie che comportano stati emotivi alterni, mentre per loro, sono fatti. Realtà. Che vanno accettate per quanto sono.
E lì ho capito che io non sarò MAI una vera apinista e che gradirei restare nella mia (beata) ignoranza (grazie).
Dopo questa parentesi di realtà, il mio maestro aggiunge: “Ora qui assumiamo il passo da alta montagna. Tranquilli, andiamo lenti. Di modo che non ci siano problemi di fiato”.
E abbiamo iniziato a percorrere il canalone facendo dei percorsi in diagonale per smorzare la salita, e con passo molto lento.Talmente lento che a tratti avrei voluto accendermi una sigaretta, lo ammetto.
Lo ringrazio ancora ora sia chiaro, perchè non ho patito la salita, in termini fisici intendo.
Per le ore 11 arriviamo al Rifugio Marco Rosa, 3610 metri.
Ma ancora manca tanto. E lì inizio a chiedere “Quanto?” visto che siamo in “viaggio da ore” e mi rispondono il classico: un paio di ore.
Dopo questa breve pausa, (nel mentre è uscito il sole) proseguiamo.
Altra salita, altro passo lento, altro smarronamento infinito. Inutile nascondere che dopo ore e ore di cammino, la voglia di arrivare alla cima, si fa sentire!
E dopo altre due ore, eccoci nel canalone che anticipa la salita finale alla Punta Perucchetti.
Ci blocchiamo. C’è coda.
Ebbene lo giuro. C’è coda!
E quando lo spazio per salire ha la larghezza di un metro, il problema assume cospicua rilevanza.
Incontriamo altre cordate amiche che ci spiegano che non si riesce più a salire. Nel pezzo che prevede la salita per la cima c’è ingorgo e non si può più andare su.
Io non ci credo. “No vi prego, siamo qui, fateci salire”.
Il maestro, sempre serafico e sereno: “Simona possiamo provare ad arrivare fino a lì, ma se non si può, torniamo indietro”.
E arriviamo fino a “lì” percorrendo un ripidissimo canalone stretto per renderci conto una volta saliti con fatica, che non si riesce a proseguire!
Sono le 12.30, sono 8 ore o più che camminiamo, siamo a 4000 metri, ma alla cima, non ci arriviamo!
E dentro di me una voce: “ Sei a 4000 metri, fino a ieri manco salivi una collina, prova a rompere le palle che ti ci mando subito”.
Mi rilasso al volo e lo accetto! Serena. E comunque felice, sono arrivata a 4000 metri!
Solo che come sempre, dopo 8 ore o più… Oddio la discesa no! Pure la discesa. Noooo…
Fate due conti degli orari che ormai io li ho persi. E allora che provo a fare?
Scivolare con il sedere a mo’ di slitta lungo il canalone (quello dei 50gradi, quello della valanga… quello insomma). Con il piccolo dettaglio che: siamo legati in cordata. Abbiamo ai piedi dei ramponi. Idea geniale eh, ma poco praticabile. E dopo alcuni (divertenti) tentativi, i miei compagni dicono: “Anche no”. E riprendiamo a camminare. Per ore. Tante.
Avvisto finalmente il Rifugio Marinelli nonché punto di arrivo alle 17 di pomeriggio.
Appena metto piede al suo interno, un’altra voce: “Non me ne frega niente che siamo in montagna, ora mi fumo una stecca di sigarette che me la merito tutta!”.
Stanca, felice, emozionata ancora anche se l’impresa reale non mi è riuscita, ma l’esperienza personale è stata forte.
Per poter fare una cima in alpinismo devi arrivarci alla cima, in caso contrario, la cima è fallita.
Non conta se mancano 300 metri, 20 o 2. Se non ci arrivi, è fallita. Punto.
Ma come dice Walter Bonatti: “La montagna se praticata in un certo modo è una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano”.
Nota cronachistica: dal Rifugio Marinelli mi mancavano ancora 3 ore per scendere all’auto che abbiamo raggiunto alle ore 21.30, quasi correndo per evitare il buio (se nel pomeriggio avevo iniziato a sentire delle voci, ormai ero passata alle visioni), un’ora di auto fino a Sondrio (non guidavo io, ma dovevo raccontare al mio amico), e poi 2 ore di auto fino a Milano (ero in auto sola e ancora non so come io sia arrivata a casa).
Nota realistica: il giorno dopo, alzandomi dal letto, non riuscivo ad aprire la finestra. Immaginate che succedeva quando cercavo di SEDERMI… Ogni singolo muscolo mi faceva male, e, vi assicuro, non è un eufemismo.
Ebbene in un giorno ho scalato 2000 metri, ma quella mattina, la finestra l’ho lasciata chiusa?!
Daniela dice
In quei del 2014!!! Ma questo è un invito a scalare il Bernina, già domani, così , tanto per fare un giretto .. il solo leggere la tua avventurosa scalata da te descritta mi ha fatto ridere tanto, hai reso una scalata impegnativa, facile, dalla serie: ok ce la posso fare anch’io ..ed .il solo ascoltami per convincermi a farla me la rido ancor di più.
Chissà se l’hai poi raggiunta? Suppongo di sì e chissà quante altre.
È stato un piacere leggerti.
Daniela
PS: l’hai poi aperta la finestra ? : )
Simona Scacheri dice
Ahahaha mi fa davvero piacere quanto scrivi 🙂
Ma il Bernina ammetto che non l’ho più raggiunto, ma sicuramente ho continuato a cercare di arrivare ad altre cime (a volte facili eh! Altre volte meno, a seconda :))
E la finestra la si apre sì, tranne che dopo le “imprese”!!! Ancora i miei “muscoli” paiono non abituarsi ahahahah
(grazie!!!)